Questo sito utilizza solo cookie tecnici necessari per la fruizione dei contenuti. Per maggiori informazioni leggi l'informativa sul trattamento dei dati personali.

Privacy Policy
Governo italiano
Seguici su
Cerca

Intervento del ministro Giorgetti su Il Messaggero

Il ministro Giorgetti

Pubblichiamo l’intervento del ministro Giancarlo Giorgetti apparso sul quotidiano Il Messaggero del 7 settembre 2021

 

Circoscrivere le sfide chiave per la competitività e la crescita del Paese è incarico improbo. Gli scenari di crescita del Pil sono confortanti e del tutto inauditi, ma è eccezionale anche il nuovo scenario economico. Ricordiamoci che prima della competitività esiste il contesto dello scambio fatto di forze produttive, industrie, lavoratori, e materie prime, fattori meno analizzati nel ventennio passato, dove tutto era domanda e ben poco si ragionava sull’offerta.
La pandemia ha sovvertito questo quadro e ha creato squilibri tra i settori produttivi evidenziando colli di bottiglia e difetti d’approvvigionamento di beni strumentali e non solo di materie prime.
Perciò siamo adesso costretti a ragionare sulla costruzione dell’offerta.

Può essere utile ricordare cosa accadde nel dopoguerra. Il piano Marshall fu una gigantesca messa a disposizione dei beni, del difetto di materie prime e macchinari, ma si accompagnò anche alla ricostruzione. Un crearsi di forze produttive nuove ruppe con l’autarchia fascista, aprì i mercati e preparò il boom.

Ma il boom confermò che era stato più che giusto badare non ai sussidi, ma a creare anzitutto le forze morali e materiali di un nuovo quadro dello scambio. Poi arrivarono la competitività e l’esplosione della domanda, ma prima tutti, comunisti o liberali, s’impegnarono come forze produttive, per usare un termine oggi desueto, ma utile.

Il difetto di produttività, anzitutto del terziario, e l’inefficienza amministrativa dello Stato sono eredità ancora strutturali, che non possono essere taciute, e non possiamo consolarci con le grandi virtù del nostro sistema manifatturiero.

La cosa più grave e allarmante è tuttavia costituita dal fatto che, di fronte a questo andamento per tanto tempo non vi sia stata nel nostro Paese una reazione condivisa, una consapevolezza diffusa della assoluta necessità di collocare il tema del recupero di tassi accettabili di crescita come priorità assoluta.

È innegabile che alla base delle difficoltà che il nostro Paese ha registrato nell’ultimo ventennio vi sono alcuni fattori oggettivi, a cominciare dal tasso di natalità particolarmente basso e dal progressivo invecchiamento della popolazione.
Una popolazione prevalentemente anziana è ovviamente più refrattaria ai cambiamenti e all’innovazione e meno disposta a rischiare.

Anche sul piano della finanza pubblica, l’invecchiamento della popolazione produce un impatto negativo non compensato dai vantaggi che potrebbero derivare da un consistente allargamento di una base occupazionale.

Ci sono poi altri fattori negativi. Mi riferisco agli effetti della globalizzazione con l’impatto fortissimo sul sistema produttivo nazionale della concorrenza, spesso sleale, delle cosiddette economie emergenti ma anche ai vincoli di risanamento della finanza pubblica imposti a livello europeo tradottisi in una drastica caduta delle spese per gli investimenti. E ancora: alle politiche monetarie “ingessate”, che escludevano la possibilità di ricorrere allo strumento delle svalutazioni competitive e che soltanto con l’avvento alla Presidenza della BCE di Mario Draghi hanno riprodotto anche in Europa le esperienze di Quantitative easing già praticate altrove, in particolare negli Stati Uniti e in Giappone, per fronteggiare shock esogeni di dimensioni straordinari.

Accanto a questi fattori, tuttavia, ritengo che nella vicenda italiana non sia stata meno esiziale l’assenza della capacità dell’intera classe dirigente di valutare per tempo il possibile impatto di questi fattori e invertire il prolungato ciclo di stagnazione.

Purtroppo, in Italia è diffuso un sentimento di scarsa simpatia verso gli imprenditori che da troppe parti sono guardati con sospetto mentre sarebbe necessario riconoscere e valorizzare il coraggio, e in alcuni casi l’eroismo, di tanti imprenditori che operano nel nostro Paese nonostante tutti gli impedimenti e gli ostacoli che rendono oggettivamente più faticosa e difficile l’iniziativa economica e lo svolgimento di attività produttive rispetto ai maggiori concorrenti.

Al Mise, ispirati dalla convinzione che il sistema imprenditoriale costituisca il pilastro intorno al quale costruire le strategie complessive per la crescita e il recupero di competitività, abbiamo già avviato e intendiamo realizzare una serie di iniziative.
In primo luogo vorrei che il Mise smettesse di essere il luogo dove le aziende vengono a morire, ma quello dove nascono. Insomma vorrei trasformarlo da reparto di rianimazione a uno di ostetricia. Per questo servono più fattori. In primo luogo penso alla riforma del ministero che abbiamo definito per acquisire capacità di studio, analisi e competenze sul mercato, di cui il ministero oggi non dispone, per l’individuazione delle priorità da perseguire.
Un secondo elemento su cui stiamo lavorando è la revisione complessiva e organica del sistema degli incentivi e, delle diverse forme di supporto alle attività produttive che si sono andati stratificando negli anni e che è oggi un sistema complicato in cui faticano ad orientarsi in particolare le piccole e medie imprese che spesso rinunciano alla possibilità di avvalersene. Altro punto fondamentale è lo sviluppo e il sostegno all’imprenditoria giovanile.

Su un diverso piano, dobbiamo essere consapevoli che la fase di transizione avviata non sarà indolore e rischia anzi, se non governata con la dovuta attenzione, di produrre danni gravissimi sia interni che a livello geopolitico internazionale.

Per questo motivo ritengo che vada accuratamente verificato che i progetti e gli interventi previsti dal PNRR ispirati all’obiettivo di velocizzare la transizione digitale ed ecologica siano preceduti da una approfondita valutazione dell’impatto potenziale e della capacità di assorbimento da parte del sistema produttivo nazionale.

Dobbiamo, in altri termini, evitare il rischio di finanziare interventi che vadano ad esclusivo vantaggio di imprese straniere o che paradossalmente, anziché promuove la ricollocazione alla frontiera tecnologica di una parte del sistema manifatturiero nazionale, ne possano velocizzare la crisi.

Sul piano internazionale, non meno necessario sarebbe, in primo luogo da parte dell’Unione europea, che ci fosse la capacità di valutare i rischi che una accelerazione eccessiva dei processi di transizione possono determinare sugli equilibri a livello globale. Mi domando se qualcuno si stia interrogando sull’impatto che un precipitoso abbandono del gas naturale come fonte energetica può produrre sui conti di Paesi come la Russia, o di tanti Stati arabi, e sulla possibilità che ne discenda una destabilizzazione rischiosissima per l’Occidente soprattutto laddove si dovesse tradurre in un potente innesco dell’estremismo islamista.

 

 

Questa pagina ti è stata utile?

Non hai validato correttamente la casella "Non sono un robot"
Torna a inizio pagina