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L’intervento alle Commissioni parlamentari

Il ministro Giorgetti

Il Ministro Giancarlo Giorgetti è intervenuto oggi, in videoconferenza, alle Commissioni congiunte di Camera e Senato sulle attività produttive per presentare le linee programmatiche del Ministero.

 

Intervento del Ministro Giorgetti

Desidero ringraziarvi per l’odierna audizione.

La lunga esperienza da parlamentare mi consente di affermare che non si tratta di un appuntamento rituale ma di una occasione sicuramente utile. Per questo motivo vorrei che l’audizione di oggi sia un momento di confronto e di sintesi rispetto ad una fase molto particolare che stiamo vivendo come Paese. Un confronto che aiuti ad affinare anche quelle che sono le azioni del Governo e in particolare del Ministero dello sviluppo economico.

Credo che occorra partire dalla presa d’atto per cui il nostro Paese e, più in generale, l’intera Europa e tutto il mondo occidentale stanno vivendo una drammatica fase, che può pienamente definirsi storica, suscettibile di produrre cambiamenti radicali e che presenta, nell’immediato e nel prossimo futuro, enormi rischi ma anche qualche opportunità.

Una discussione approfondita sulle linee programmatiche del Ministero dello sviluppo economico non può prescindere dal contesto in cui stiamo vivendo.

Un contesto segnato dall’impatto pesantissimo della pandemia che ha determinato una caduta del PIL nei Paesi europei e nel mondo occidentale di dimensioni incomparabili con quelle registratesi in tutte le precedenti crisi del secondo dopoguerra.

Una così drastica contrazione delle attività economiche, con conseguente impennata del tasso di disoccupazione e delle condizioni di disagio sociale, può accelerare il processo, in atto da diversi anni, di modifica degli equilibri economico-strategici che potrebbe cambiare profondamente i rapporti di forza tra le economie mature e le cosiddette economie emergenti, con particolare riferimento alla Cina, e costringere le nostre società a far fronte a crescenti instabilità.

Negli scorsi anni si è sottovaluto il rischio costituito da una accelerazione della concorrenza di questi Paesi per la tendenza a far prevalere, rispetto ai danni di una competizione spesso sleale, le opportunità che, ad esempio, una Cina in prodigiosa crescita avrebbe offerto come mercato di sbocco anche alle nostre economie e come volano per una intensificazione degli scambi.

Oggi verifichiamo che la aspettativa di un aumento del reddito disponibile per le famiglie in considerazione del crescente peso delle importazioni di prodotti industriali a basso costo, si è rivelata un errore fatale in primo luogo per il fatto che quei prodotti hanno comportato la chiusura di tante imprese e la perdita di tanti posti di lavoro in Europa e, in secondo luogo, perché la concorrenza quasi sempre si gioca sul prezzo a scapito della qualità. Senza dimenticare quello che è una sorta di dumping maturato da aziende che hanno qualche sovvenzione statale. Sovvenzioni che normalmente sono precluse alle aziende italiane ed europee.

L’Europa ha cercato, purtroppo tardivamente, di correre ai ripari attraverso la modifica delle regole relative alle difese commerciali per preservare e rilanciare le prospettive di sviluppo del settore manifatturiero così come, con la cosiddetta Strategia per la rinascita industriale volta a riportare la quota del PIL derivante dall’attività manifatturiera al 20%.

Ciò si è tradotto nell’individuazione di alcuni comparti, quali l’automotive e la siderurgia, particolarmente bisognosi di interventi di sostegno per il loro carattere strategico e per Il fatto di essere particolarmente esposti a tale tipo di concorrenza.

A questo proposito, stiamo valutando la possibilità di estendere l’ambito di applicazione della normativa golden power anche a filiere che allo stato ne sono escluse e che rivestono invece un evidente rilievo nell’assetto economico nazionale.

Più recentemente, con il Recovery Plan, l’Europa si è sforzata di mettere in campo una serie di misure, supportate da una consistente dotazione finanziaria, per tradurre in termini finalmente più concreti gli obiettivi, delineati già dalla Strategia Europa 2020 ma per lo più rimasti sulla carta, di rafforzare la competitività delle economie europee.

Si tratta di una sfida molto impegnativa i cui esiti non sono certi anche perché alcuni fattori di contesto, a partire dagli andamenti demografici, con il progressivo invecchiamento della popolazione che in Italia è particolarmente accentuato, non giocano a nostro favore.

Così come non si può ignorare la tendenza degli Stati Uniti, che sembra aver assunto carattere strutturale, a prescindere dalle diverse presidenze, di guardare più all’area del Pacifico che al dialogo transatlantico.

In ogni caso, quella del Recovery Plan è un’opportunità che l’Europa, e in particolare l’Italia, non possono perdere stante il rischio di vedersi definitivamente marginalizzati negli scenari internazionali.

L’Italia, in effetti, ha sofferto assai più dei maggiori partner europei l’impatto di una serie di cause concomitanti che hanno determinato una stagnazione che si trascina ormai da troppo tempo e i cui tratti più vistosi sono costituiti dall’insoddisfacente livello della produttività e dalle incapacità di recuperare interamente la caduta del PIL derivante dalla crisi economico-finanziaria esplosa nel 2008-2009, che invece Francia e Germania hanno ampiamente superato.

All’origine delle perduranti difficoltà del nostro Paese sono una serie di fattori critici la cui soluzione supera ampiamente l’ambito, comunque assai ampio, delle competenze affidate al Ministero dello sviluppo economico.

Si tratta di problemi strutturali del sistema italiano nel suo complesso il primo dei quali, a mio giudizio, è costituito dal peso eccessivo di una legislazione debordante e di un tessuto normativo intricatissimo che costringe l’iniziativa economica entro maglie spesso soffocanti che di fatto ne paralizzano o quanto meno ne rallentano l’attività e dall’eccessiva farraginosità delle procedure per l’attuazione concreta delle scelte pur faticosamente adottate.

In una precedente audizione in tema di Recovery plan avevo constatato, non con intento polemico, che la giungla degli incentivi, che lo Stato attraverso Cassa depositi e prestiti, Invitalia e le varie norme offre come pane alle imprese, risulta molto spesso incomprensibile e di difficile attivazione. A questo proposito preannuncio che Cassa depositi e prestiti, in seguito a una mia richiesta, ha predisposto un provvedimento che provvederò a trasmettere oggi stesso alle Commissioni, e che ha cercato lodevolmente di sistematizzare in un quadro a matrice tutti quelli che sono gli strumenti oggi disponibili per le diverse filiere e le diverse situazioni.

Tale limite si aggiunge alla già pesante complessità e lentezza con la quale anche l’Unione europea si muove e che proprio le recenti vicende di questi giorni, per quanto concerne le strategie per l’uscita dalla pandemia con le campagne vaccinali, hanno drammaticamente messo in luce: i Paesi più pragmatici (Stati Uniti e Regno Unito) hanno nettamente staccato l’Unione europea in evidente affanno.

Questo è il motivo per cui agli interventi puntuali, con riferimento ai singoli progetti, che si dovranno realizzare in attuazione al Piano nazionale di ripresa e resilienza, si dovranno accompagnare alcune riforme strutturali che sinteticamente si possono riassumere con interventi per efficientamento delle politiche e degli apparati pubblici.

E’ diventato quasi un luogo comune nel confronto politico e nelle analisi degli studiosi e degli esperti l’affermazione per cui il nostro Paese patisce l’assenza di una coerente politica industriale. Una politica che dovrebbe partire da una puntuale ricognizione delle situazioni di fatto, dalla individuazione delle filiere in cui è realistico concentrare gli sforzi per supportare e potenziare le eccellenze esistenti e su cui si possa basare un aumento del volume delle produzioni e una crescita della presenza nei mercati internazionali in vista di un'inversione del ciclo dopo il superamento della fase più acuta e critica della pandemia.

Per formazione e vocazione sono ben lungi dal sostenere la centralità della mano pubblica nell’economia.

Ritengo, anzi, che il nostro Paese abbia bisogno di un radicale cambiamento di approccio che collochi finalmente la figura dell’imprenditore - imprenditore inteso come persona fisica e quindi non tutti i fondi finanziari e d’investimento che pur sono importanti per il funzionamento della nostra economia - e dell’impresa stessa al centro dell’attenzione per il ruolo imprescindibile che essi possono svolgere per assicurare solide prospettive di crescita dell’economia.

Negli ultimi anni è prevalso un approccio denigratorio e critico nei confronti delle imprese viste con sospetto, come fattore generatore di problemi più che come elemento dinamico e di creazione di sviluppo.

E’ bene chiarire che senza imprese solide, in grado di muoversi e operare agevolmente e di competere nei mercati globali non esistono gli spazi per assicurare benessere e progresso economico e sociale.

Senza creazione di nuova ricchezza non c’è la possibilità di politiche ridistributive per rimuovere o limitare i divari di sviluppo.

La cultura dell’impresa, comunque largamente radicata nel nostro Paese, come dimostra il numero elevatissimo di imprese di piccole e medie dimensioni, deve trovare una adeguata attenzione anche fra i decisori politici e nelle sedi istituzionali.

Come già ho avuto modo di ricordare in una precedente occasione, l’Italia si colloca, nell’ambito dell’Unione europea, immediatamente dopo la Germania per la quota di valore aggiunto delle attività manifatturiere.

Il patrimonio di conoscenze ed esperienze accumulate nel tempo dagli imprenditori Italiani va tuttavia preservato attraverso una coerente strategia di politica industriale che utilizzi in maniera coordinata tutte le leve a disposizione in una logica sinergica.

La capacità di mantenere le quote di mercato, nonostante una concorrenza sempre più agguerrita, dimostrata negli anni precedenti dalla parte più vitale dell’industria nazionale è un segnale importante. Quel che serve è uno sforzo di coordinare e consolidare un tessuto produttivo molto articolato per consentire alla nostra industria, in particolare a quella che si confronta nei mercati globali, di raggiungere le dimensioni di scala più adeguate. Per questo motivo l’Italia dovrà partecipare attivamente alla discussione, avviata in ambito europeo, per la revisione in materia di aiuti di Stato, in modo da rimuovere una serie di vincoli e limitazioni che potevano giustificarsi nella fase di costruzione del mercato interno ma che risultano oggi decisamente anacronistici se non autolesionistici quando si tratta di fronteggiare la concorrenza delle economie emergenti. Verifichiamo quotidianamente le difficoltà derivanti da una disciplina troppo minuziosa in materia di aiuti di Stato a danno delle possibilità di porre in essere interventi, anche a carattere temporaneo, per sostenere imprese in difficoltà che tuttavia possono ancora riprendersi avvalendosi di un prestito ovvero di garanzie pubbliche.

Abbiamo apportato alla bozza iniziale del Piano nazionale alcune modifiche e integrazioni, per la parte di competenza del MiSE, in una logica che cerca di coniugare gli obiettivi indicati a livello europeo, della promozione, della digitalizzazione e della transizione ecologica, con la realtà del tessuto produttivo nazionale in modo da collocare una parte più consistente di imprese alla frontiera tecnologica, in particolare quelle piccole e medie.

Accanto ai settori di avanguardia sotto questo profilo, come la Space economy o la ricerca nel comparto farmaceutico e biotech, che rivestono un evidente rilievo strategico generale, un rafforzamento ed una modernizzazione dei processi produttivi può assicurare indubbi vantaggi ai fini della competitività della manifattura italiana anche in settori ritenuti erroneamente obsoleti che invece, per l’elevata qualità dei prodotti possono assicurare un alto valore aggiunto, come il tessile, la moda o l’arredamento.

La scarsa attenzione alle effettive esigenze del mondo produttivo che è stata dedicata dalle politiche pubbliche nel nostro Paese è tanto più grave alla luce del fatto che la stessa Unione europea ha riconosciuto il valore fondamentale della piccola e media impresa come presidio della tenuta sociale e come elemento di sviluppo diffuso, ma anche in considerazione del fatto che al modello delle piccole e medie imprese e alla esperienza italiana guardano tanti Paesi che perseguono l’obiettivo di uscire dalla povertà e di accelerare i processi di crescita.

In Italia le politiche pubbliche hanno oscillato, spesso in maniera contraddittoria e incoerente, tra la dispersione di interventi di sostegno “a pioggia”, frammentando e polverizzando la politica degli incentivi, e scelte dettate da una insufficiente istruttoria fondata sull’analisi delle condizioni e delle compatibilità più generali, ivi comprese quelle ambientali e logistiche.

La stessa strategia Industria 4.0, così come in precedenza alcuni dei crediti di imposta concessi per sostenere nuovi investimenti, a differenza di quanto avvenuto altrove, a partire dalla Germania, sono stati di fatto rimesse alle scelte discrezionali delle singole imprese, spesso prive anche del supporto necessario costituito da una assistenza adeguata e da una adeguata informazione sui vari strumenti e sulle finalità da perseguire.

Si tratta, allora, non tanto di riportare alla sfera pubblica una parte degli assetti produttivi nazionali quanto di collocare la scelta degli strumenti di intervento in una cornice che valuti, sulla base dell’esperienza pratica, l’utilità di ciascuno di essi, i potenziali progressi conseguibili con alcuni correttivi e il rilievo che possono assumere con riferimento alle priorità che si intendono perseguire.

Per questo motivo ho avviato presso il Ministero dello sviluppo economico un lavoro approfondito per riportare all’interno di una banca dati e consolidare tutti gli elementi di conoscenza con riferimento alle differenti forme di intervento a sostegno delle imprese.

In questo modo potremo verificare se la stessa impresa si è avvalsa di più incentivi e l’uso che ne ha fatto monitorando i risultati ottenuti rispetto agli obiettivi previsti.

Riguardo a questi strumenti oggi a disposizione sottolineo che, esaurita la fase di definizione normativa ed esaurita anche la fase della concessione, non fa seguito di fatto una operazione di monitoraggio e una verifica dell’efficacia e del raggiungimento degli obiettivi per cui questi incentivi sono stati, in qualche modo, definiti e previsti.

Una seconda linea di intervento si riferisce alla necessità di disporre di una strumentazione efficace per la gestione delle crisi che si vanno moltiplicando anche per effetto della pandemia. E qui vorrei precisare alcune cose, visto anche le polemiche che in questi giorni sono intervenute. I tavoli di crisi presso il Ministero dello sviluppo economico sono sicuramente utili, ma sono utili non per fare inutili passerelle, ma per trovare soluzioni. E bisogna parlare sempre un linguaggio di verità. Per quanto riguarda il sottoscritto e questo Ministero, il linguaggio che useremo sarà un linguaggio di verità e io invito anche tutte le parti coinvolte ad usare un linguaggio di verità, specialmente per i più deboli e i soggetti interessati, in particolare i lavoratori.

A questo scopo abbiamo avviato le procedure di reclutamento per l’attivazione di una specifica struttura che si avvarrà di competenze professionali di spiccata qualità per supportare le decisioni ministeriali nei tavoli di crisi, e abbiamo disposto lo stanziamento in un fondo che potrà essere attivato per traghettare imprese in temporanea difficoltà verso condizioni migliori, quando vi siano obiettive prospettive di ripresa.

A questo proposito, il decreto predisposto dal MiSE insieme al Ministero del lavoro è stato lungamente esaminato dalla Corte dei conti e dovrebbe essere pronto l’avviso pubblico per il reclutamento di queste risorse. Credo che anche il Ministero dello Sviluppo economico, in qualche modo, debba costruire gli strumenti, le professionalità e le strutture in grado di affrontare situazioni di crisi d’impresa per numero, entità, dimensioni e caratteristiche senza precedenti.

Siamo consapevoli del disagio crescente tra i tanti, troppi lavoratori coinvolti nelle varie crisi aziendali, e lavoriamo concretamente per individuare soluzioni praticabili che implichino, laddove possibile, anche la ricerca di potenziali investitori.

Le strumentazioni oggi esistenti prevedono e contemplano sempre l’intervento di un investitore privato al fianco di Invitalia. Il problema è la ricerca esattamente di queste figure, di questi imprenditori, perché laddove non vi fosse un soggetto privato che si assuma una parte del rischio d’investimento non si possono attivare gli strumenti e quindi non si possono dare soluzioni alle crisi aziendali, in quanto l’intervento dello Stato non può essere integralmente rimesso alla mano pubblica, in base alle normativa europea sugli aiuti di Stato.

E’ comunque evidente che soltanto un approccio meno frammentario e una risposta più strutturale che si avvalga di competenze e strumenti di intervento specifici, potrà consentire di affrontare le situazioni di crisi in maniera meno improvvisata e casuale, oppure meramente dilatoria come spesso avvenuto. E qui c’è un riferimento, per me molto importante, rispetto all’approfondimento che abbiamo avviato, coinvolgendo anche altri Ministeri competenti, per verificare se non sia possibile ipotizzare alcune modifiche alla disciplina delle procedure concorsuali. Si tratterebbe di modifiche a carattere sperimentale da applicare nella fase attuale per la gestione delle crisi, ed in particolare delle amministrazioni straordinarie, che non si dovrebbero trascinare indefinitamente e il cui esito finale non dovrebbe essere necessariamente la liquidazione, per privilegiare invece le possibilità di valorizzare gli asset aziendali potenzialmente suscettibili di produrre utilità e garantire prospettive di ripresa, anche sotto il profilo occupazionale, attraverso riconversioni e ristrutturazioni.

E’ evidente che questo lavoro richiederà anche uno sforzo per potenziare le capacità del nostro sistema, non solo dal punto di vista normativo, ma anche dal punto di vista della professionalità e delle competenze degli apparati pubblici, per l’attrazione di investimenti. Riguardo al tema dell’attrazione degli investimenti, l’Italia deve ritrovare anche una capacità, in qualche modo di proiezione esterna, per riuscire a portare investimenti diretti nel nostro Paese. E nei prossimi giorni con il Ministero degli Esteri ci sarà un momento di confronto con tutti gli altri Ministeri su questo punto.

L’enorme liquidità disponibile grazie alle politiche monetarie espansive perseguite a livello globale e il ruolo fondamentale svolto da alcune tipologie di investitori pazienti, che si muovono con una logica di medio e lungo termine e non di carattere speculativo, consentono di ipotizzare l’ingresso, come soci finanziatori in alcune imprese italiane, di soggetti che possono rafforzarne la capitalizzazione anche per contrastare il fenomeno dell’offshoring oltre che di riportare in Italia, ove possibile, imprese che hanno deciso, in passato, di delocalizzare.

E’ evidente, anche in questo caso che, oltre al rafforzamento delle competenze e degli strumenti specifici, bisogna lavorare pure per creare le condizioni di contesto generale in modo che rendano meno oneroso lo svolgimento dell’attività d’impresa in Italia rispetto a quanto avviene in altri Paesi, oltre che certo e sicuro. Il requisito della certezza, ad esempio, della legislazione e della normazione nel medio periodo, se non nel lungo periodo, è un altro elemento che viene valutato tra i prioritari per quanto riguarda la decisione dell’investimento in Italia.

Un’ulteriore linea di intervento per cui intendiamo impegnarci è quella di utilizzare tutte le opportunità che si offrono in ambito europeo per accedere a risorse e progetti, anche in partnership con altri Paesi membri, diretti a rafforzare e sostenere la manifattura italiana ai fini dell’aggiornamento tecnologico.

Purtroppo non sempre l’Italia riesce ad acquisire una quota di risorse corrispondente al contributo del nostro Paese al finanziamento dell’UE.

Ciò vale per Horizon che costituisce la fonte più consistente di stanziamenti dedicati a livello europeo al sostegno della ricerca.

Ricordo anche, in particolare gli IPCEI, che sono progetti d’investimento strategici comuni a livello europeo e nell’ambito dei quali sono disponibili grandi risorse con deroghe molto accentuate alla normativa sugli aiuti di Stato. Alcune imprese italiane sono coinvolte, ad esempio, sugli IPCEI su batterie e idrogeno. Questi sono terreni su cui occorre sforzarci tutti insieme per creare un canale privilegiato d’accesso a risorse molto importanti in termini quantitativi.

L’attivazione di questi strumenti è una fonte assolutamente imprescindibile per l’Italia che tuttora registra una percentuale di spesa della ricerca rispetto al PIL largamente inferiore alla media europea e soprattutto ai partner più attrezzati.

Per questo motivo, occorre lavorare per migliorare le politiche e gli strumenti relativi alla ricerca con particolare riguardo al trasferimento tecnologico e alla integrazione del mondo dell'università e della ricerca con il sistema produttivo.

Analoghe considerazioni valgono anche per altre iniziative assunte e annunciate dall’Unione europea (strategia dello spazio; cloud; IPCEI; politiche per la sicurezza e la difesa) per i quali è indispensabile che l’Italia operi in modo tale da cogliere tutte le opportunità che si offrono per sostenere il processo di avanzamento tecnologico delle proprie filiere.

In conclusione, per quanto concerne il comparto manifatturiero, ritengo che non si debba assecondare un diffuso e crescente pessimismo sulle prospettive del nostro sistema produttivo; nonostante le numerose difficoltà, infatti, il nostro sistema ha dimostrato e dimostra una innegabile vitalità.

Piuttosto, tocca al decisore pubblico compiere uno sforzo per disegnare le politiche industriali inquadrandole all’interno di una strategia a medio e lungo termine che non sia interamente dominata dall’affannosa risposta alle emergenze che via via si presentano ma che sappia indicare priorità e canalizzare gli strumenti di intervento in direzione di un potenziamento strutturale della dotazione industriale e di un avanzamento tecnologico. E questo trade off tra tempo ed energie dedicate all’emergenza e la necessità di trovare tempo ed energie da dedicare alla proiezione del medio e lungo termine, quindi in termini strategici, è un trade off che si presenta a tutti noi e su cui dovremmo riflettere. La politica se vuole essere politica industriale con una ambizione strategica deve riacquistare pienamente il proprio significato.

Un elemento da non trascurare in questo senso è costituito dalla necessità di aggiornare la normativa sulla proprietà industriale per porre le nostre imprese nelle condizioni di poter più agevolmente competere nei mercati internazionali, con particolare riguardo all’utilizzo del brevetto europeo.

Anche in questo caso, le scelte da adottare devono inserirsi in un contesto, quello delineato dall’Unione europea, che si muove in direzione di un sistema brevettuale unitario.

Sotto questo profilo, la disciplina contenuta nel codice di proprietà industriale ha bisogno di interventi diretti alla semplificazione e all’accelerazione delle procedure e ad un contenimento dei relativi costi, anche attraverso un più intenso utilizzo degli strumenti digitali.

Particolare rilievo assumono in questo ambito le iniziative da adottare per agevolare le piccole e medie imprese, supportandole nell’acceso ai servizi di consulenza.

A breve il MiSE lancerà una iniziativa che intende avvalersi anche dei contributi e dei suggerimenti che potranno venire dal sistema delle imprese.

Per quanto concerne il settore del commercio, duramente colpito dalla pandemia ed in gravissime difficoltà, occorre procedere secondo una logica complessiva che consideri tutti i profili, a partire da una valutazione dell’impatto di una ulteriore prevedibile crescita del commercio online.

La prospettiva di un più intenso utilizzo del commercio online su cui attualmente il nostro Paese registra un ritardo rispetto ai maggiori partner, rischia di tradursi nello svuotamento dei centri urbani con la perdita di una rete di esercizi che svolgono una funzione di tenuta complessiva anche dal punto di vista della vivibilità e della fruizione degli spazi pubblici.

Le città, e soprattutto i centri di minore dimensioni, senza esercizi pubblici sarebbero privati non solo di servizi immediatamente disponibili, ma anche di occasioni di socialità e risulterebbero inevitabilmente più tristi e brutti.

Anche in questo caso, dovremmo ragionare ed intervenire per tempo prima che la situazione sia tanto deteriorata da risultare irrecuperabile.

Da ultimo, stiamo lavorando per trovare un rimedio soddisfacente alla annosa questione del commercio ambulante che lamenta una condizione di precarietà per la mancata individuazione di soluzioni praticabili al problema posto dalla cosiddetta direttiva Bolkestein. Insieme alle competenti strutture della Presidenza del Consiglio e della Rappresentanza permanente, mediante il confronto con la Commissione europea, dovremo quanto prima arrivare a definire una soluzione che eviti di trascinare in una infinita querelle tanti operatori che giustamente vorrebbero muoversi entro un quadro di regole certe.

Non si tratta di eludere o violare la normativa europea ma di considerare alcune peculiarità del commercio ambulante, così come di alte attività radicate per tradizione nelle realtà territoriali quali l’esercizio di stabilimenti balneari, per i quali le consuetudini dei consumatori e la continuità di impresa non sono meno meritevoli di considerazione dell’attenzione alla salvaguardia della concorrenza.

 

 

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